I fondamenti della potenza statunitense: i pionieri

Il ruolo che ebbero i pionieri nel gettare le basi della futura potenza statunitense.

Nel 1823 gli Stati Uniti avevano ampliato considerevolmente i propri confini territoriali, specialmente grazie all’acquisizione della Louisiana dalla Francia nel 1803 e della Florida dalla Spagna del 1819. La colonizzazione delle regioni occidentali dai pionieri aveva dovuto affrontare la strenua resistenza dei nativi, ma dopo una serie di scontri sanguinosi gli indiani d’America furono costretti a ritirarsi a ovest del fiume Mississippi. Durante l’Ottocento, sotto la pressione dei coloni, la frontiera verrà spostata costantemente verso occidente fino a raggiungere le sponde dell’Oceano Pacifico; in tale contesto avvenne lo sterminio di buona parte delle popolazioni native e la segregazione di quelle restanti in apposite “riserve indiane” messe a disposizione dal governo di Washington.

Nel 1846, lungo i confini meridionali, gli Stati Uniti entrarono in guerra contro il Messico a causa della regione del Texas, sulla quale il governo messicano esercitava fino a quel momento un’autorità, ormai solo nominale. La schiacciante vittoria ottenuta dalle forze statunitensi portò nel 1848 alla firma di una pace in base alla quale il governo di Washington acquisì la sovranità sui possedimenti messicani del Nordamerica, una vastissima area geografica estesa dal Golfo del Messico all’Oceano Pacifico. Il favorevole esito del conflitto cancellò il ricordo statunitense della guerra contro la Gran Bretagna, scoppiata nel 1812 lungo la frontiera del Canada e conclusasi nel 1814 con la vittoria inglese.

La presenza britannica sul continente rimarrà un ingombrante ostacolo per l’espansione commerciale degli Stati Uniti, la cui economia entrò nella prima metà del XIX secolo in una fase di rapido sviluppo, stimolato sia dalla crescita industriale e finanziaria di cui si resero protagoniste le regioni settentrionali, sia dall’aumento della produzione agricola (tabacco, riso e cotone) nelle campagne del Sud, dove la forza-lavoro era costituita prevalentemente da schiavi di origine africana. I contrasti di interessi tra gli Stati del Nord, favorevoli a una politica protezionista a difesa del settore industriale sostenuta da un potere centrale autoritario, e quelli del Sud, gelosi della propria autonomia e interessati a un abbassamento dei dazi doganali per facilitare le esportazioni agricole, si rifletteva sul piano politico statunitense, attraverso la competizione dei due principali partiti: quello federalista e quello repubblicano.

I federalisti, espressione della grande borghesia urbana, erano riuniti attorno alla memoria di George Washington e avevano conservato il potere con il suo successore John Adams fino al 1800, quando i repubblicani, guidati da Thomas Jefferson e appoggiati dai proprietari terrieri, conquistarono il potere mantenendolo per trent’anni circa. In tale contesto temporale il Partito federalista scomparve progressivamente dalla scena, mentre quello repubblicano si scisse in due correnti: i repubblicani nazionali, che raccolsero l’eredità lasciata dai federalisti, e quelli democratici, espressione puntuale degli interessi rurali e legati allo spirito egualitario che animava le masse dei coloni disseminate lungo la sterminata frontiera. Nasceva in questo modo una nuova formazione politica, il Partito democratico, che alle elezioni del 1829 si impose sui repubblicani portando alla presidenza il generale Andrew Jackson, sotto il governo del quale i dazi doganali furono sensibilmente abbassati e il diritto di voto venne esteso ad ampie fasce della popolazione.

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